Riportiamo di seguito l’omelia del vescovo Mariano Crociata durante la celebrazione per il 10° anniversario del suo ingresso alla guida della Diocesi di Latina-Terracina-Sezze-Priverno.
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Sono grato a voi tutti che avete scelto e avete avuto la possibilità di partecipare: presbiteri, diaconi, religiosi, fedeli laici. Ringrazio la Parrocchia del Sacro Cuore, quanti hanno preparato e collaborato allo svolgimento di questa celebrazione, il coro. Trovo significativo che la ricorrenza dei dieci anni del mio ingresso venga celebrata proprio qui dove è avvenuto l’ingresso.
La ricorrenza e la mia esperienza
Ho scelto di sottolineare questa ricorrenza non solo per la mia persona ma per la diocesi tutta. Nell’intreccio tra ministero e personalità sono fiducioso che riusciamo ad andare oltre l’aspetto personalistico per accedere al mistero della Chiesa che tutti insieme componiamo, senza cancellare la specificità e l’originalità mie e vostre, ma sentendoci presenze in comunione e segni personali di un corpo ecclesiale più grande che è il Signore stesso a realizzare in noi e attraverso di noi. È vero che non c’è Chiesa locale senza vescovo, ma è altrettanto vero il contrario. Sento perciò l’importanza di fare sosta, sia pur brevemente. Lo facciamo sempre, soprattutto nel giorno del Signore, ma poi in tante altre circostanze. Ci fermiamo per ritrovare il senso di ciò che siamo, del cammino che stiamo facendo, per ritrovare soprattutto Colui che ci conduce e da cui vogliamo lasciarci condurre; ci fermiamo sempre per ritrovare noi stessi e ridare significato e slancio alla nostra vita di credenti e di Chiesa. Così anche stasera.
Questi dieci anni non sono solo miei, sono anche vostri. E come io non mi posso nascondere dietro le vostre inadempienze, così voi non lo potete fare dietro le mie inadeguatezze. «Se [tu] avessi prestato attenzione ai miei comandi», ci ha detto il profeta. Sì, dobbiamo rammaricarci per non aver prestato abbastanza attenzione al Signore, in grado diverso e con differenti responsabilità, ma pur sempre io e voi insieme. Nondimeno il Signore ha suscitato e riversato molta grazia in mezzo a noi, così che possiamo dire con il salmo di avere sperimentato la beatitudine di chi trova la sua gioia nella legge del Signore. Di tutto questo ringraziamo volgendo il nostro sguardo in avanti, rinnovando la decisione e rafforzando la volontà di lavorare insieme, di aiutarci a lavorare insieme, sapendo che, a isolarsi, nessuno ha niente da guadagnare, e che chi lavora solo per sé non raccoglierà nulla.
Ho sperimentato anche in questa tappa della mia vita la sorpresa e la novità che l’hanno sempre caratterizzata. Pochissime cose ho scelto di fare per mia iniziativa, le cose più significative mi sono state sempre chieste e in modo inatteso. Non ero mai stato da queste parti, ma questa la sento come la mia Chiesa e perciò la mia terra e la mia patria (ogni terra può diventare mia patria dal momento che in realtà aneliamo ad un’altra patria), senza chiusure da parte mia, né sconfessioni, rimozioni o dimenticanze; qui si condensa in modo nuovo e originale non solo tutto ciò che sono ma anche tutto ciò che finora sono stato. Avverto del resto un’affinità profonda con le genti di queste terre, con voi fedeli di questa diocesi, risultato di ondate migratorie che non si fermano ancora. E se qualcuno avesse perso di vista la sua condizione non stanziale ma migrante, in costante mobilità, sono qui anche per ricordarglielo, ricordare che siamo in cammino, mai arrivati, mai al sicuro e appagati. Ho sentito fin dal momento in cui ho messo piede qui, l’urgenza del tempo che passa e la necessità di non sprecarne alcun frammento. È un sentimento che continua ad accompagnarmi e con un senso di urgenza anche maggiore; a volte mi sembra di non essere riuscito a trasmetterlo come dovrei. Dovremmo tutti comprenderlo ancora di più e meglio in questo Avvento, nel quale risuona il monito che il tempo si è fatto breve e l’annuncio che il Regno di Dio è vicino. Senza ansia ma con l’ardore che l’amore conosce.
Il ministero e l’azione pastorale
Una parola ho bisogno di dire su che cosa dovrebbe essere l’azione pastorale della Chiesa. Guardo sempre con una punta di disincanto la retorica sulla pastorale e sulle attività ad essa legate. Il mistero che noi – come ministri ordinati, collaboratori laici, fedeli tutti – trattiamo ha questo di proprio e caratteristico, che tocca, interessa, riguarda ultimamente l’interiorità e la libertà di ciascuno in presenza e in relazione con Dio e la sua iniziativa. Tutto si gioca sostanzialmente qui. Che cosa ci sta a fare la pastorale? È la mediazione ecclesiale, storicamente ed esistenzialmente situata, disposta per favorire e aiutare il riconoscimento dell’iniziativa di Dio e l’accoglienza da parte di ogni credente, ministro o meno che sia. Se non perdessimo mai di vista questo, staremmo più in pace con noi stessi e tra di noi, e riusciremmo meglio nell’interpretare efficacemente la missione che il Signore ci affida. L’aspirazione che nutro sta nell’aiutare me stesso e tutti ad entrare in questo orizzonte.
La minaccia più grande che vedo sempre incombente è quella denunciata dal vangelo: «Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non vi siete battuti il petto!». In questo tempo di indifferenza, di assuefazione, di insensibilità, di stordimento collettivo, quello di cui c’è più bisogno è proprio la ricerca di ciò che vi si oppone e contrasta tutto questo; c’è bisogno di vigilanza, di attenzione, di sensibilità, di capacità di sorpresa, cioè di cogliere e riconoscere quanto di nuovo e vero e bello si distende dinanzi a noi, senza mai cadere nel cinismo, nel disincanto, nel disfattismo. C’è bisogno dell’ardore che viene dall’amore. Senza ardore non si va avanti. E l’ardore non lo si risveglia né lo si trasmette per decreto o per attivismo. Lo si raccoglie nella preghiera e lo si trasmette con la diffusione contagiosa di chi ha la grazia di averlo avuto in dono. Queste due cose dobbiamo imparare a cercare: preghiera e persone che contagino con il loro ardore di fede e di amore. Guardatevi dalle persone che alimentano malumore, pettegolezzo, calcolo meschino. Per il resto, impariamo da san Paolo: «Rallegratevi con quelli che sono nella gioia; piangete con quelli che sono nel pianto» (Rm 12,15). E abbiamo compassione gli uni degli altri.
Guardando in prospettiva
Dove stiamo andando? Sento il dovere di toccare anche questo punto adesso, senza la pretesa di dire tutto ciò che sarebbe necessario. Varie circostanze ci aiutano a individuare la direzione: il cammino sinodale, il percorso dell’iniziazione cristiana, la riscoperta della spiritualità e il ricentramento sulla preghiera, le situazioni interne ed esterne che vedono la nostra diocesi presentare ricchezze e potenzialità, ma anche limiti e difficoltà crescenti. La direzione verso cui dobbiamo andare è quella che conduce verso una Chiesa sempre più corale, partecipata, matura. Per far questo tutti abbiamo da imparare. Noi ministri ordinati dobbiamo imparare a lasciarci aiutare e collaborare, voi fedeli laici avete bisogno di maturare consapevolezza e competenza maggiori per stare nella Chiesa, unitamente a una sensibilità squisitamente ecclesiale. Purtroppo, accade frequentemente che portiamo dentro le comunità ecclesiali le logiche mondane dell’autoaffermazione e della rivalità, se non peggio. Così che viviamo nella Chiesa come si vive nel mondo e viviamo nel mondo senza alcuna capacità di infondervi lo stile di vita e di pensiero che scaturisce dalla fede.
Abbiamo dinanzi a noi una grande sfida formativa. Dobbiamo imparare a preoccuparci di meno della salvaguardia dell’organizzazione, ad accettare di perdere tante cose superflue, a dedicarci maggiormente a ciò che è veramente necessario e proprio del carattere apostolico della Chiesa: l’ascolto della Parola, la preghiera, l’Eucaristia e la fraternità (cf. At 2,42; 6,2-4). Abbracciamo il tempo che abbiamo dinanzi, breve o lungo che sia, con il solo desiderio di renderlo pieno e fecondo con la diffusione del vangelo oltre i confini dell’istituzione, in ogni persona, gruppo e comunità che se ne lasci conquistare. Ma se non ne siamo profondamente conquistati noi per primi, come faranno altri a sentirsene interpellati e toccati? È tempo che ci rimbocchiamo le maniche e decidiamo di lasciarci guidare dal Signore e di aiutarci gli uni gli altri, tutti quanti insieme”.